Bologna, 19/03/2014

CONSIGLIO COMUNALE IN RICORDO DI MARCO BIAGI, L'INTERVENTO DEL PROFESSOR GIAN GUIDO BALANDI


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Si trasmette l'intervento tenuto da Gian Guido Balandi, professore ordinario di diritto del lavoro all'Università di Ferrara, nel corso del Consiglio comunale straordinario dedicato al ricordo di Marco Biagi, nel dodicesimo anniversario della sua uccisione.

"Signor  Sindaco,  Signora  Presidente el Consiglio, comunale, Signore consigliere e signori consiglieri, cara Marina, cara Francesca Biagi, autorità , gentili ospiti.

I deliranti criminali che dodici anni orsono hanno ucciso Marco Biagi pretendevano con quel delitto efferato di fermare le idee e le proposte che Marco veniva elaborando in materia di regolazione del mondo del lavoro. Per lo studio e poi per la trasformazione di quelle regole Marco era vissuto, ma non solo per questo: era un uomo equilibrato che sapeva distribuire il suo interesse e la sua passione su un’ampia tastiera. Così, ho sempre, nel mio privato ricordo come in pubbliche occasioni, preferito rievocare la vita di Marco e non la sua morte.

Credo così di interpretare laicamente l’invocazione della liturgia cattolica alla requie dei defunti, e allora annoterò subito che la distanza tra di noi in materia di religione – lui praticante e io non credente – era sovente anche occasione di ironica e leggera derisione reciproca, come quella volta che – scendendo a rotta di collo il ghiacciaio di Freshfield alle falde della Presanella sotto l’ infuriare di un temporale e tra i fulmini che schioccavano provocando il pungente odore di ozono – accusava, Marco, il mio ateismo di averlo trascinato all’ inferno: “senti che puzza di zolfo …” e ridevamo anche per tenere a bada una certa apprensione. Vent’ anni dopo sono tornato su quella cima – quel giorno eravamo stati respinti a poche decine di metri dalla conquista – proprio nel ricordo di Marco, consegnato ad una piccola targa che spero ancora resista, lassù, legata alla croce di vetta.

La montagna, allora. Una decina d’ anni dopo l’ inizio della nostra comune appartenenza al gruppo che si riuniva attorno a Federico Mancini e che si nutriva della sua sapienza giuridica e della sua straordinaria umanità, quando i figli primogeniti erano piccoli, avvenne di trascorrere un paio di vacanze estive insieme in montagna, tra le Dolomiti e l’Alpe centrale.
Marco era già un montanaro provetto – usava vantarsi del già conseguito stemma d’oro dei venticinque anni di socio del Club Alpino Italiano, stemma che io ho raggiunto ben più tardi – io non ero che un appassionato, poco più che neofita.
Non c’è altra esperienza condivisa che, come l’andare in montagna, con il silenzio, il ritmo del corpo che si traspone nello spirito, il contemplare con umiltà la natura, il misurare le proprie forze, si rifletta nel modo di essere di una relazione, imprimendovi alcuni almeno dei propri caratteri. E così tra Marco e me ha continuato ad esistere, anche anni dopo, quando il suo vero grande amore sportivo era divenuta la bicicletta, questa zona di silenziosa condivisione. Quando poi avvenne che si sfiorasse anche, insieme, il pericolo grave, nell’episodio che ho ricordato sopra, allora la silenziosa condivisione assumeva anche caratteri di un baldanzoso amarcord.

La bicicletta. Quando vincemmo il concorso a cattedra – due, Marco e io di una “banda dei quattro” che comprendeva Luigi Mariucci e Marcello Pedrazzoli, allievi tutti di Mancini - Marco si regalò la Bianchi di colore verdino della quale era tanto orgoglioso: “i fili dei freni corrono dentro alla struttura” mi segnalò: credo che allora fosse una grande novità. Con la bicicletta si muoveva in città – come in quella tragica sera -, partecipava ad esclusive comitive politico-professional-competitive, ma batteva anche da solo gli Appennini, e almeno una volta all’anno, in estate, veniva a trovarmi a Loiano. A Pasqua del 2002, nel turbamento ancora cocente di quella assurda morte, trovandomi nel luogo dove eravamo stati insieme per quella che era stata quasi l’ultima volta, scrissi di getto alcune righe, che furono poi pubblicate nella rivista dell’Università di Ferrara, dove Marco aveva insegnato per un biennio tra gli anni ’70 e ’80.

«Caro Marco
nel sole di agosto
sghembo tra gli alberi
dalla finestra del mio studio
non udrò più sulla ghiaia, irregolare
il ticchettio di quelle tue assurde scarpe
più alte davanti che dietro.
“Babbo, c’ è Marco” “Ciao Lucia.
Buongiorno Signora”
“Oh, Professore, come sta ?”
“Vieni Marchino, accomodati”
E le gambe muscolose e glabre
e le cosce fasciate dai ridicoli
quasi osceni per aderenza pantaloncini da ciclista.
E la maglia sudata (“come un porco” aggiungevi con il tuo riso breve)
“Solo acqua ?” “Solo acqua”
E poi i miei racconti di montagna
E il tuo piccolo rimpianto: l’ Adriatico,
al massimo la bicicletta sulle colline di Romagna;
e i malanni dei genitori.
La guida in montagna è sempre Silvano:
il ricordo ridendo di come la scampammo bella,
quella volta in Presanella.
“E il diritto del lavoro, come sta ?”
“Ha davanti un passaggio duro:
il federalismo può cambiare molto le carte.
Vedremo ad ottobre”
“Ti leggo spesso: la tua Europa non mi convince del tutto.
Ne ho parlato a lungo”
“Con i tuoi amici inglesi e francesi, conservatori come te ?”
“Forse anche un poco di più;
ne parlerò con gli studenti, nel corso autunnale;
loro vi capiranno, voi innovatori !”
S’ è fatto tardi, e il pranzo domenicale non transige;
ti accompagno alla bici: “Occhio alla discesa !”
Un’ ultima risata sicura, e sparisci alla curva dello stradello,
tra i pini e i castagni.»

Il pranzo domenicale in famiglia. Marco mostrava di vivere la famiglia con una seria compostezza che si distingueva dall’esibito disincanto di altri di noi. Marina, Francesco, Lorenzo, ma anche i genitori e la sorella Francesca davano l’ impressione di solidi pilastri che con lui costituivano un tutt’insieme di grande robustezza. Ma anche su questi si poteva – con leggerezza e autoironia – scherzare: così quando nell’estate del 1982, in attesa dei due rispettivi primogeniti, Francesco nacque qualche settimana prima di Vittoria, me lo comunicò ridacchiando “qui sono arrivato prima io!!”

Quando, il 19 marzo 2004, Giorgio Ghezzi volle ricordare Marco <raccogliendoci in silenzio, pronunciando taluno di noi, solo qualche parola e rifuggendo così dalla consueta liturgia accademica>, richiamai la consuetudine di Marco di recarsi alla partita con il figliolo Lorenzo, così mi aveva raccontato (vantando anche una qualche discendenza diretta dalla nota passione calcistica del nostro Maestro Federico, abbonato alla tribuna del Bologna) e gli dedicai questi struggenti versi di Roberto Roversi

Il giocatore di calcio
pensa all’amico che non c’è;
Può contare sulle dita
i giorni della vita e intorno
il circo dei leoni, le voci si perdono
è il momento di una attesa
nessuna rondine indica speranza
le ombre inducono ad una precipitosa ritirata.
Il nemico all’erta segue le orme della fuga.
Il giocatore di calcio dice
il pallone non finisce
in mare. Si nasconde fra le nubi.

La montagna, la bicicletta, la famiglia: tre frammenti che mi piace immaginare scomporsi e ricomporsi come in un luminoso caleidoscopio: in fondo così è la vita di una persona nella sua straordinaria e sempre unica varietà.
Quando, anni dopo le escursioni, il formarsi delle famiglie e le vittorie concorsuali, giunti insomma alla piena maturità – almeno anagrafica - si insinuò tra di noi il dissenso scientifico – che per la nostra scienza, il diritto del lavoro, vuol dire dissenso di politica del diritto –, la montagna continuò a restare, come dire?, il sorridente avvio di un pacato dialogare, che dalle cime poteva poi discendere nella pianura inquieta, turbata, angustiante del “che fare”, senza perdere il suo carattere di serena trasparenza, come un mattino presto, ancora semibuio, fuori dal rifugio, all’attacco di un ghiacciaio".
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