Bologna, 30/10/2013
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"Gentili Signore e Signori, permettetemi di associarmi ai saluti e ai ringraziamenti, senza però tornare ad elencarli. Abbiamo poco tempo. Solo un ringraziamento personale, al Sindaco Merola, che mi ha dato l’opportunità di essere qui oggi. Onorevole Signora, Daw Aung San Suu Kyi. Per un vecchio professore, che ha dedicato una buona parte della propria vita e della propria attività ad ascoltare le voci che venivano dall’Asia, e negli ultimi anni, con particolare trepidazione, soprattutto dalla Birmania, è un grande onore parlare qui, davanti e vicino a Lei. E’ occasione di commossa contentezza vederla qui libera, e impegnata a lavorare al futuro del Suo Paese. Ed è ancora motivo di una grande emozione. Queste cose non valgono solo per me, ma per tutti i presenti, non a caso tanto numerosi. Vorrei terminare questo breve preambolo con un’osservazione cui tengo molto, e che so essere cara anche a lei. In tutti questi lunghi anni (un ventennio, in pratica) di sofferenze, di disagi, di assenza di quella libertà che è il bene più prezioso delle donne e degli uomini, Lei non è mai stata sola. Non alludo tanto alla solidarietà internazionale, che pure è stata importante. Alludo alla vicinanza coraggiosa, fedele, affettuosa che milioni di birmani, uomini e donne, giovani e vecchi e bambini, mai Le hanno fatto mancare; sicché è impossibile non ricordare, accanto a Lei, anche queste persone di ogni condizione tra gli eroi di una delle più grandi lotte per la libertà degli ultimi decenni. Ora dico subito di cosa non parlerò e di cosa parlerò. Non parlerò della Sua vita, anche se mi piacerebbe farlo perché è una grande vita. Essa è tuttavia sufficientemente nota nelle sue linee di fondo. E se io tentassi di entrare nei particolari, il tempo che abbiamo a disposizione non mi permetterebbe di andare oltre il primo capitolo. Mi concentrerò quindi su un solo tema, che riassumerei così: che cosa ci insegna Aung San Suu Kyi, quali valori di carattere universale la sua esperienza ci trasmette, che siano capaci di modificare anche la nostra vita, il nostro modo di essere e di operare. Ebbene, il primo di questi valori non è certo nuovo, perché ci richiama subito alla memoria una serie di personaggi e di vicende: Gandhi innanzitutto, Martin Luther King, il Nelson Mandela di un lungo periodo della sua vita, la resistenza civile opposta senz’armi da molti norvegesi agli invasori nazisti. E ancora, l’esperienza di Solidarnosc in Polonia, e i giovani della “primavera di Pechino” dell’89, che introdussero la nonviolenza in una cultura, quella cinese, nelle cui tradizioni era scarsamente presente (lo era, invece, nel buddismo tibetano, e non solo). Nominare la nonviolenza induce a pensare subito alla grande figura di Gandhi. Ed è indubbio che Gandhi sia stato una delle fonti, per non dire uno dei maestri di Aung San Suu Kyi, che non a caso ne parla più volte nei suoi libri. E tuttavia, sarebbe del tutto errato operare una riduzione del pensiero e dell’esperienza di Aung San Suu Kyi a quelli di Gandhi. Significherebbe dimenticare altre fonti, orientali (soprattutto buddiste) e occidentali, e sottovalutare l’originalità e l’autonomia del suo pensiero. Per fare solo un esempio, assai poco di Gandhi si può trovare nelle idee di Aung San Suu Kyi sull’economia: tutta protesa, la leader birmana, a immaginare e costruire la modernizzazione del proprio paese, la sua uscita dall’arretratezza e dalla miseria; quanto Gandhi era stato invece attento a riscoprire modi tradizionali di produrre e di convivere. Resta, ad accomunare l’esperienza di Aung San Suu Kyi non solo a Gandhi, ma ad altri grandi del nostro recente passato, l’insistenza sulla nonviolenza e sulla principale argomentazione che la sostiene: raggiungere il potere con le armi, la violenza, l’odio, comporta necessariamente assimilare se stessi, quando si sia raggiunto l’obiettivo, ai metodi di chi era stato il proprio nemico. Tanto più colpisce questa posizione così decisa della leader birmana quando si tengano presenti la ferocia di una repressione durata decenni e l’oltraggio che un intero popolo ha dovuto subire. Si può facilmente immaginare l’ancor più terribile destino che quel popolo avrebbe potuto avere se una predicazione instancabile non avesse limitato e trattenuto e impedito processi storici ancora più sanguinosi, dolorosamente noti alla storia dell’Asia. Questo era un primo argomento. Ma ce n’è almeno un secondo per il quale il pensiero e l’opera di Aung San Suu Kyi rimarranno in noi. Negli anni in cui lei cominciava a esprimere le sue idee, e poi a cercare di applicarle, era in corso in Asia una discussione nella quale governanti oppressori e tirannici cercavano un alibi nella polemica contro democrazia e diritti dell’uomo: non valori universali, a parer loro, ma invenzioni dell’Occidente per l’Occidente, e solo per esso. Aung San Suu Kyi ha fatto invece sempre parte del gruppo eletto di pensatori asiatici e africani che hanno difeso l’universalità dei diritti umani, accanto al rispetto della diversità delle culture. Una lapidazione non è meno feroce se ne è vittima una donna saudita anziché una francese; né lo è la tortura, o un carcere in cui sia trattenuto per decenni un cinese anziché un polacco. Nel 1994 Aung San Suu Kyi scrisse un testo per l’UNESCO, e lo pubblicò poi nell’“International Herald Tribune”. Lo intitolò: “La cultura della democrazia e dei diritti dell’uomo è universale”. E a questo principio rimase sempre fedele. Per esempio, in uno dei saggi contenuti nel suo bellissimo libro “Libera dalla paura”, scrisse, con grande decisione: “Il principio che i Birmani non siano ancora pronti per godere degli stessi diritti e privilegi dei cittadini dei paesi democratici è offensivo”. In realtà - non si può non constatarlo molto tristemente - la cultura che è avanzata di più negli ultimi anni è quella che tiene in carcere un altro premio Nobel per la Pace, il cinese Liu Xiabo, arrestato il giorno stesso dell’assegnazione del premio, condannato a 11 anni per le sue idee, e solo per le sue idee. Questo grande scrittore sadicamente perseguitato da una delle tante dittature che si aggirano nel mondo, ci fa capire che nessuna battaglia è mai vinta una volta per tutte. Ma oggi siamo qui per festeggiare Daw Aung San Suu Kyi e la sua vittoria; per commuoverci per lei e con lei. Il lungo tempo dell’attesa ci appare in questo giorno almeno in parte risarcito dal fatto che la persona che finalmente incontriamo non ha solo un passato straordinario di donna coraggiosa e tenace, ma anche un grande futuro suo e del suo popolo. Per questo le facciamo tutti i nostri auguri. E le siamo grati per averci aiutato a tenere accesa anche noi la fiaccola della speranza".
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